La retribuzione costituisce l’elemento fondamentale del rapporto di lavoro, derivante da un contratto in cui si prestano servizi in cambio di una controprestazione economica.

Questo rapporto è caratterizzato dall’onerosità e da un legame funzionale tra la prestazione lavorativa e la retribuzione.

Il primo problema riguarda l’esistenza di salari “eccessivamente bassi” (c.d. salari poveri, ovvero vicini alla soglia di povertà o comunque al di sotto della “soglia di minimo decente”) e, dunque, la difficoltà di garantire la minima dignità economica che deve derivare dalla prestazione lavorativa.

Il secondo problema attiene al salario mediano che non ha garantito negli ultimi anni la tenuta della dinamica inflattiva.

Ecco che, le due questioni salariali - strettamente connesse tra loro - necessitano, tuttavia, di interventi che, ancorché diversi nella forma, tendano nella sostanza a favorire la garanzia di salari e retribuzioni dignitose, oggi impensabili per molti lavoratori italiani, non solo tra coloro che hanno una retribuzione considerata sotto la soglia del minimo e appena sopra il livello di povertà relativa, ma, altresì, tra coloro che sebbene collocati nella c.d. “classe media” - beneficiaria di retribuzioni in grado di trainare i consumi che, in un sistema di economia moderna capitalistica, alimentano gran parte del PIL - finiscono per subire una grave riduzione del potere d’acquisto (fino allo scivolamento nelle fasce meno abbienti), a causa della forte incidenza del cuneo fiscale e della dinamica inflattiva, con pregiudizio sui consumi e a discapito della crescita dell’economia complessiva della nazione.

Analizzando quindi il rapporto statistico strutturale tra salario medio, mediano ed il salario minimo, emerge come il vero problema in Italia sia rappresentato dal fatto che il salario medio e mediano risultano eccessivamente bassi.

Nello specifico, secondo Eurostat, sebbene i salari orari mediani in Italia siano gli undicesimi più alti tra i 27 Stati UE - sia considerando il valore lordo in euro, sia considerando la parità di potere d’acquisto - il salario mediano italiano è, in realtà, inferiore alla media europea, a quella dell'area euro e, soprattutto, a quella di Germania e Francia.

Occorre, allora, rispondere alla domanda del “perché il salario medio e mediano sono così bassi in Italia?”.

La risposta può rintracciarsi nel sistema giuridico che si è scelto di adottare per l’individuazione della retribuzione per ciascun settore lavorativo, per il quale, in Italia, il salario medio e mediano non sono altro che determinati dalla contrattazione collettiva.

Da ciò derivano le maggiori criticità, rappresentate - da un lato - del fenomeno negativo della contrattazione collettiva di riferimento qualora inferiore al minimo salariale dignitoso e - d’altro lato - del problema dell’elusione della contrattazione collettiva stessa.

I sindacati in Italia sono, ancora oggi, strutturati come associazioni non riconosciute ai sensi dell’art. 36 del codice civile, dotate di soggettività giuridica e autonomia patrimoniale, ma non di personalità giuridica. Ciò significa che la disciplina dei contratti collettivi deve essere ricondotta al diritto privato e la loro efficacia limitata agli iscritti alle organizzazioni firmatarie. Per quanto la Costituzione abbia quindi riconosciuto un ruolo chiave ai sindacati, la mancata attuazione dell’art. 39 solleva ancora critiche, soprattutto da parte delle organizzazioni non confederali sui contenuti delle intese negoziate, sulla rappresentatività e l’influenza rispetto al potere politico. La contrattazione collettiva erga omnes in Italia rimane, pertanto, un tema di interesse poiché si cerca ancora di trovare un equilibrio tra la tutela dei diritti dei lavoratori e le esigenze delle imprese nel contesto economico attuale.

Con l’intensificazione in Italia del dibattito sul salario minimo e nonostante l’ampia copertura della contrattazione collettiva nel nostro Paese, i dati evidenziano che un numero considerevole di lavoratori vive in condizioni di povertà.

Secondo il CNEL quasi tutti i lavoratori (98%) e le aziende (99%) in Italia sono coperti dalla contrattazione collettiva, ma la frammentazione delle sigle datoriali e sindacali ha contribuito alla negoziazione di contratti con retribuzioni insufficienti, alimentando la concorrenza sleale e il dumping salariale. Ciò ha portato a una situazione in cui circa il 25% dei lavoratori percepisce una retribuzione inferiore al 60% della mediana e oltre il 10% dei lavoratori vive in condizioni di povertà. La "mediana" che rappresenta il valore centrale del salario tra tutti i lavoratori di un determinato settore o area geografica, è un concetto statistico utilizzato per determinare il salario minimo. Metà dei lavoratori guadagna al di sopra della mediana e l'altra metà guadagna al di sotto di essa. Questa misura è spesso utilizzata per evitare distorsioni causate da valori estremi o irregolarità nei dati salariali. Questi dati sollevano dubbi sulla capacità della contrattazione collettiva di garantire retribuzioni adeguate alla maggioranza dei lavoratori. Le principali voci contro l’introduzione del salario minimo provengono da parte del sindacato, temendo che esso possa ridurre la copertura della contrattazione collettiva e disturbare le negoziazioni salariali, oltre a portare le aziende all’applicazione di salari legali inferiori ai minimi previsti dai CCNL con ulteriore impoverimento dei lavoratori.

Inoltre, l'elevato numero di CCNL ha dato luogo al fenomeno del cosiddetto dumping contrattuale, ossia l'applicazione di contratti firmati da organizzazioni datoriali e sindacali che non risultano maggiormente rappresentative e che applicano minimi tabellari più bassi.

Pertanto, in attesa di risoluzione alla problematica rappresentata, la stessa scelta di lasciare alla contrattazione collettiva il compito di garantire un minimo salariale a tutti i lavoratori comporta, in ogni caso, sia vantaggi e che svantaggi.